Intarsio

La collezione di intarsi storici del museo Correale

Nel 1937 il Cav. Silvio Salvatore Gargiulo (detto Saltovar), figura ecclettica della Sorrento che fu, poeta, scrittore ed artista, figlio del maestro ebanista Giuseppe Gargiulo, donò al Museo Correale le sue splendide collezioni di mobili ed oggetti realizzati in intarsio sorrentino.
La collezione Saltovar del Museo Correale si compone di tavoli, scrigni, scatole e pannelli, realizzati dai maggiori artigiani del secolo d’oro dell’intarsio sorrentino. Tra tutti, l’oggetto più ammirato della donazione è il Secrétaire à dos d’âne (schiena d’asino), particolare nelle forme ed interamente ricoperto di tasselli in mosaico ligneo. Il prezioso mobile, principalmente assolve alla funzione di scrittoio con leggio, ma cela una piccola toletta, una scatola da cucito ed una scacchiera da gioco. Il mobile, apribile sia anteriormente che posteriormente, rappresenta un vero virtuosismo di ebanisteria sorrentina: al maestro Gargiulo occorsero dieci anni di lavoro (1900 -1910) per portarlo a quasi totale compimento: di fatto il prezioso secretaire resta un incompiuto, alcuni scomparti interni rimasero in legno grezzo.
Notevole anche la collezione di scatole esposte, tra cui eccelle quella in legno intagliato a volute ed intarsiato con la classica scena popolare della Tarantella.

L’intarsio sorrentino ebbe origine intorno al 1830 quando l’ebanista locale Antonio Damora iniziò ad introdurre, nella sua produzione di mobilio, lavori e finiture in tarsia di legno caratterizzata dal taglio dritto e a due colori. Il Damora comprese che si potevano ottenere risultati sorprendenti sfruttando il gioco chiaroscurale di due legni locali, il noce e l’arancio, accentuandone il contrasto grazie a sottili incisioni perimetrali, ricolmate di stucco nero.
Grazie agli incoraggianti risultati conseguiti ed al consenso degli acquirenti, il Damora trasformò il suo laboratorio in Via Tasso in una vera e propria fabbrica artigianale di mobili, avvalendosi della collaborazione di due esperti artigiani, Luigi Gargiulo (con bottega a Largo dello Schizzariello) e Michele Grandiville il cui laboratorio poteva contare sulla presenza di ben 43 operai. Grandville partecipò e fu premiato per un suo lavoro ad intarsio, all’Esposizione Universale di Londra del 1862.
In particolare il Damora (chiamato da Francesco I di Borbone a collaborare con il tedesco Fischer all’arredo e ai restauri di Palazzo Reale) ed il Gargiulo sono riconosciuti quali padri fondatori della tarsia lignea sorrentina: l’attività di Damora restò legata alla produzione di mobilio mentre quella di Luigi Gargiulo si orientò – nel tempo – a soddisfare la crescente richiesta di piccoli oggetti intarsiati, destinati a soddisfare le esigenze dei colti viaggiatori stranieri, in visita a Sorrento.
La possibilità di rivolgersi ai turisti che sempre più numerosi affollavano l’assolata penisola sorrentina rappresentò, per gli intarsiatori sorrentini, oltre che motivo di soddisfazione personale anche un forte stimolo economico: la richiesta di trasportare con facilità quelle ammirate decorazioni che inizialmente ornavano i mobili prodotti a Sorrento, fu prontamente risolta dagli artigiani locali con la creazione di piccoli oggetti, veri souvenirs di viaggio dalle dimensioni contenute e talvolta smontabili: scatole dalle più svariate funzioni, piccoli scrittoi portatili e leggii, quadri, specchi, cornici, ventagli, nacchere, etc. Fu così che la conoscenza dell’intarsio sorrentino si diffuse ovunque, in Europa ma anche oltreoceano, e questi manufatti divennero – nel tempo – oggetto di collezionismo.
Come descritto da Carlo Merlo nella sua Guida della Città di Sorrento, nel 1857 le botteghe artigiane occupavano ormai quasi la prevalenza delle strade del centro storico di Sorrento: l’intarsio aveva acquisito il peso di industria primaria nell’economia locale!

Gli intarsiatori sorrentini ebbero l’abilita di coniugare la bellezza dell’oggetto alla sua utilità, riuscendo a suscitare nell’acquirente anche la forte capacità evocativa del luogo di provenienza e dei suoi caratteristici usi e costumi, affiancando tutto ciò a livelli tecnici esecutivi elevatissimi: la tecnica dell’intarsio sorrentino, complessa e di lunga elaborazione, spesso era il frutto di un lavoro di collaborazione tra più maestranze, il disegnatore, il traforatore, il ricacciatore, l’ebanista ed il falegname. Dall’esecuzione del disegno preparatorio, ispirato a scene classiche (spesso le rovine dell’antica Pompei) o alla rappresentazione di aspetti folcloristici della vita quotidiana (come la raffigurazione della Tarantella), fino ai più tardi motivi floreali di inizio Novecento, si passava alla composizione vera e propria dell’intarsio realizzato con centinaia di piccoli pezzi in legni pregiati, il tanto abbondante ulivo delle campagne sorrentine, il noce, il pioppo, l’arancio, i più ricercati ebano e palissandro, ricomposti dalle sapienti mani dell’artigiano. Le sfumature venivano inizialmente ottenute mediante l’antica tecnica della “bruciatura”, ovvero il passaggio di sabbia bollente nelle cavature; ricorrendo alla raffinata tecnica della ricacciatura a china si riusciva ad esaltare, con abile maestria chiaroscurale, i dettagli dell’intarsio.
La finitura dell’oggetto veniva infine eseguita mediante levigatura delle superficie e stesura di gommalacca o cera.
Gli artigiani sorrentini, al fine di impreziosire ancora di più le loro opere, associarono all’intarsio figurato altre tecniche, come l’intaglio e il raffinato ed elaborato mosaico in legno policromo, suggerito dall’Opus tasselatum di epoca romana: la presenza di quest’ultimo solitamente differenzia la tarsia storica sorrentina da quella nizzarda di medesima epoca, entrambe molto simili per aspetti tecnici e compositivi.

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